Gay e Serie A: l'ultimo tabù
Dal coming out di Jakub Jankto alla lista di Fabrizio Corona: ecco perché il calcio è ancora problematico
Dopo i rumor estivi, la conferma è arrivata sotto l’albero: Jakub Jankto ha trovato l’amore. Il calciatore del Cagliari, il primo dichiaratamente gay nella storia della Serie A, ha celebrato il Natale con un semplice bacio davanti a un albero illuminato, postandolo su Instagram. Un gesto che sembra banale, ma che per il mondo del calcio è assolutamente inedito.
Con il suo coming out, Jankto ha assunto (volente o nolente) il ruolo di pioniere. È diventato il calciatore professionista più importante ad aver dichiarato pubblicamente la propria omosessualità mentre è ancora in attività. Davvero è possibile che sia l’unico? Eppure, mi risulta che l’abilità nel tirare calci a un pallone non abbia niente a che vedere con l’orientamento sessuale.
Dal debutto con lo Slavia Praga al passaggio in Italia, dove ha vestito le maglie di Udinese, Ascoli e Sampdoria, Jakub Jankto ha attraversato una carriera fatta di alti e bassi. Nel frattempo, è diventato padre di una bambina nata dalla relazione con la modella Markéta Ottomanská. Dopo un’esperienza in Spagna con il Getafe e il ritorno allo Sparta Praga, il 2023 ha segnato una svolta decisiva nella sua vita, dentro e fuori dal campo: il suo coming out pubblico.
Con poche parole, semplici e dirette – “Non voglio più nascondermi” – Jankto è stato il primo calciatore in attività di un campionato europeo di primo livello a dichiarare apertamente la propria omosessualità. Un gesto storico, accolto con calore dai tifosi del Cagliari al suo arrivo in Sardegna. Il gol segnato a marzo, l’unico con la maglia rossoblù, è diventato un simbolo di libertà e coraggio, ben oltre i confini del rettangolo verde.
Certo, l’ultima stagione non è stata esaltante: zero minuti giocati, 12 partite trascorse in panchina e 6 in infermeria. Ma al di là delle difficoltà sul campo, Jankto ha conquistato qualcosa di più grande: la possibilità di essere se stesso e, con il suo gesto, ha incoraggiato altri colleghi a uscire allo scoperto.
Eppure, siamo ancora lontani da una vera normalizzazione. Basti pensare al clamore sollevato dalle insinuazioni di Fabrizio Corona solo un anno fa: con l’arrivo di Benjamin Pavard all’Inter, molti avevano creduto che la squadra potesse diventare la prima "big" a schierare un calciatore LGBT. Peccato che Pavard non avesse mai fatto coming out e fosse stato recentemente paparazzato in spiaggia in compagnia di una splendida ragazza in topless.
Lo scorso luglio, inoltre, il difensore nerazzurro ha ufficializzato le nozze con la modella Kleofina Pnishi. Insomma, pare proprio che il ragazzo non sia gay, ma solo francese. Nazione da cui, tra l'altro, noi italiani avremmo ancora molto da imparare, calcisticamente (a giudicare dal rendimento della Nazionale spallettiana) e in tema di diritti civili.
A novembre, con la consueta eleganza che lo contraddistingue, Fabrizio Corona è tornato a far parlare di sé pubblicando una presunta lista di calciatori gay o bisessuali, promettendo altri nomi e insinuando che la Lega Serie A impedisca ai club di sostenere i giocatori nel fare coming out. Tra i nomi citati spiccavano quelli di Vlahovic, Lukaku, Sanchez e Correa. Dietro questa operazione, a metà tra scandalo e pseudo-denuncia (diciamolo chiaramente: Fabrizio Corona non è esattamente il paladino dei diritti civili), si riapre un vecchio nervo scoperto.
Corona non ha alcun interesse a sfidare il sistema o combattere i pregiudizi. Il suo obiettivo è monetizzare attraverso il caos: rendere ricattabili i protagonisti, cavalcare lo scandalo e riportare i riflettori su di sé. Ma il vero problema non è lui. È il fatto che, nel 2024 (quasi 2025), l’omosessualità nel calcio faccia ancora notizia.
Perché un semplice sospetto viene trattato come uno scandalo? Perché, in uno sport così globalizzato e mediatico, siamo ancora fermi a un modello di narrazione che vede l’omosessualità come una minaccia all’idea (datata e stereotipata) di mascolinità?
Chi non segue il calcio tende a immaginare lo spogliatoio come un ambiente tossico, dominato da battute goliardiche, allusioni fuori luogo e un’omertà che scoraggia chiunque voglia sfidare il conformismo. In un contesto simile, mostrare vulnerabilità – e dichiarare la propria omosessualità è spesso percepito come tale – diventa un atto di coraggio che può trasformarsi in un rischio.
Se le curve degli stadi restano terreno fertile per cori razzisti e sessisti, fortunatamente Jankto non ha subito questo destino, un’eccezione che fa sperare in un cambiamento. Forse perché le nuove generazioni di calciatori sono cresciute in un contesto più inclusivo e appaiono meno tolleranti verso certi atteggiamenti.
E se, per una volta, Corona non avesse del tutto torto? Per i club e gli sponsor, i calciatori sono prima di tutto brand. La paura di danneggiare l’immagine di un giocatore in mercati conservatori spinge molti a mantenere il silenzio. Tuttavia, questo timore potrebbe essere sovrastimato: ricerche recenti dimostrano che il pubblico è molto più aperto di quanto si creda. Forse il vero problema non è il sostegno del pubblico, ma la mancanza di coraggio da parte dei dirigenti.
I media italiani, in particolare, tendono a trasformare l’omosessualità nel calcio in un’occasione di gossip, riducendo i protagonisti a oggetti di curiosità morbosa. Invece di riflettere sull’impatto umano di un outing forzato, si concentrano febbrilmente sul prossimo scandalo da sbattere in prima pagina.
Le istituzioni calcistiche, dal canto loro, sembrano rifugiarsi dietro il paravento delle buone intenzioni. La UEFA, per esempio, promuove campagne come Equal Game, ma senza azioni concrete queste iniziative rischiano di rimanere slogan vuoti. È necessario un impegno reale: i club devono creare ambienti sicuri e inclusivi, mentre la Lega deve assumersi la responsabilità di combattere attivamente ogni forma di discriminazione, dentro e fuori dal campo. Solo così il calcio potrà davvero fare quel salto di qualità tanto necessario.
Jakub Jankto ha mostrato che essere se stessi, persino in Serie A, è possibile. Il suo coraggio è un segnale di speranza, ma non basta un gesto isolato per cambiare un sistema. La strada verso un calcio davvero inclusivo è ancora lunga, e il lavoro da fare non riguarda solo i giocatori, ma tutti: tifosi, media, club e istituzioni.